Man bassa sui medicinali

Il problema del costo dei medicinali, drammaticamente urgente per i paesi in via di sviluppo, nel corso dei prossimi dieci – venti anni rischia di estendersi all’intero pianeta. Anche i paesi industrializzati, le cui popolazioni da quasi cinquant’anni godono dell’accesso sistematico e gratuito ai farmaci necessari, potrebbero vedere questo diritto ridursi progressivamente.Fino a che punto, infatti, i sistemi sanitari dei paesi industrializzati potranno continuare a sostenere l’aumento dei costi di fronte alla necessità, per esempio, di rimborsare nuovi medicinali contro le malattie cardiovascolari o il cancro? Per non parlare dei trattamenti che saranno sviluppati e brevettati a partire dalla ricerca sul genoma umano – peraltro condotta grazie a fondi pubblici (1) – , o delle terapie legate all’invecchiamento… Negli Stati uniti, gli esperti dei programmi pubblici di assistenza sanitaria alle persone anziane (Medicare) e ai poveri (Medicaid) prevedono che la spesa sanitaria nazionale, quantificata in 1.400 miliardi di dollari del 2001, raggiungerà i 2.800 miliardi di dollari nel 2011 (2).

Nello stesso periodo dovrebbe triplicare la spesa per i prodotti farmaceutici che si ritiene toccherà, sempre nel 2011, i 414 miliardi di dollari. Di conseguenza, le società assicurative private dovranno scegliere tra ridurre le prestazioni o aumentare i premi. Il che approfondirà il divario tra gli assicurati in grado di finanziare la propria salute e quelli cui non resterà che una ridotta copertura sanitaria.

Già oggi in molti paesi europei la percentuale di spesa sanitaria stanziata per i medicinali è superiore a quel 10% che le riservano gli Stati uniti: 17% in Francia (3), 16,3% in Belgio, 17,1 in Grecia e 12,8% in Germania. La tendenza è la stessa in tutti i paesi ricchi: in Canada, per esempio, nel 2000 i medicinali costituivano il 15,2% del bilancio della sanità, contro l’11,4% di dieci anni prima (4).

E in Giappone l’andamento è identico. Da quando, nel 1995, è nata l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), il prezzo dei medicinali è sempre più subordinato alle decisioni dell’Adpic – un accordo commerciale che protegge «gli aspetti del diritto della proprietà intellettuale in relazione al commercio».

Tuttavia, è stato necessario attendere tre anni perché il settore della sanità «si svegliasse» e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) pubblicasse un rapporto in cui si denunciavano le possibili conseguenze dell’accordo sull’accesso ai medicinali (5). In breve tempo, a questo lavoro e alle preoccupazioni espresse da molti paesi in via di sviluppo, si sono affiancate le campagne di mobilitazione condotte, in particolare, da Medici senza frontiere (Msf) e Oxfam.

Quando, nel 2000, 39 industrie farmaceutiche hanno intentato causa al governo della Repubblica sudafricana chiedendo la soppressione di una legge sui farmaci ispirata alle raccomandazioni dell’Oms, l’opinione pubblica si è ribellata. Dopo un’intensa campagna internazionale di appoggio alla posizione di Pretoria, e grandi mobilitazioni della società civile sudafricana – condotte in particolare attraverso la Campagna per l’accesso alle cure (Tac) (6) – , finalmente, il 20 giugno 2001, il problema è esploso all’interno del Wto su iniziativa di un gruppo di paesi africani. Dopo lunghe discussioni, nel novembre 2001 si è arrivati alla Dichiarazione di Doha nella quale i membri del Wto affermano: l’accordo sugli Adpic «può e dovrebbe essere interpretato e realizzato in modo da appoggiare il diritto dei membri del Wto a proteggere la salute pubblica e, soprattutto, a promuovere l’accesso di tutti ai medicinali». Frase talmente ovvia che anche un bambino avrebbe potuto pronunciarla.

Il prezzo dei farmaci e il fattore «lentezza» La logica del sistema – ammesso che vi sia qualcosa di logico in questo circolo vizioso – pretende che la generalizzazione del sistema dei brevetti (la cui durata minima è di vent’anni), imposta dall’accordo sugli Adpic, sia indispensabile per permettere alle società farmaceutiche private di continuare a fare ricerca. La tesi è questa: la ricerca è costosa, ma può essere finanziata dai brevetti che, garantendo un monopolio alle industrie farmaceutiche, permettono loro di mantenere alti i prezzi.

Ma sono proprio questi prezzi che impediscono alla maggior parte delle persone che ne hanno bisogno di procurarsi i nuovi prodotti! Ora, se è indispensabile proteggere la ricerca e lo sviluppo di nuovi medicinali, è altrettanto essenziale che questi ultimi salvino vite umane fin dal momento della loro scoperta, e non vent’anni dopo… a meno di non voler perpetuare l’assurdo della situazione attuale, in cui milioni di persone muoiono per mancanza di medicinali, malgrado il fatto che i medicinali esistano e che la società sia in grado di garantirli a tutti.

La ricerca e lo sviluppo di nuovi trattamenti, per lo più in mano al settore privato, dipendono dal mercato potenziale del prodotto, e non dai bisogni sanitari delle popolazioni più povere. Nel corso degli ultimi vent’anni, dunque, si può dire che quasi non vi sia stata ricerca sui flagelli che colpiscono milioni di persone nei paesi in via di sviluppo come, ad esempio, la malattia di Chagas, la leishmaniosi, la schistosomiasi o la malattia del sonno…

Sembrava che la catastrofe annunciata dell’Aids dovesse accelerare le cose, e invece l’accesso ai medicinali continua a essere una chimera, come se non avessimo imparato niente dall’inizio dell’epidemia. Nel 1986, il direttore dell’Oms, Horst Mahler, riconosceva di aver perso quasi quattro anni perché «non si era reso conto» della gravità della situazione.

Il suo successore, il dottor Hiroshi Nakajima, di fronte a giochi di potere e a complessi intrighi politici, si è visto costretto a smantellare il programma mondiale di lotta contro l’Aids (Gpa) ideato da Jonathan Mann. Tutto quanto si era fatto fino ad allora è stato dunque «buttato alle ortiche», come afferma uno dei partecipanti al programma. Alcuni anni dopo, il dottor Peter Piot, responsabile dell’Onusida, il programma delle Nazioni unite per la lotta contro l’Aids, ha dichiarato che la transizione dall’Oms all’Onusida ha fatto perdere altri quattro o cinque anni…

La lentezza rimane una caratteristica peculiare del problema; quasi dieci anni dopo l’uscita sul mercato dei primi trattamenti antiretrovirali…
il 99% dei malati che può usufruirne vive nei paesi sviluppati.

A Doha, nel novembre 2001, la riunione ministeriale del Wto ha dato un anno al suo Consiglio sugli Adpic per trovare una soluzione a quello che è stato chiamato il «paragrafo 6»: studiare come i paesi che non sono in grado di produrre medicinali in quantità sufficiente possano fare uso di «licenze obbligatorie», cioè di quei meccanismi giuridici previsti dall’accordo, che in alcuni casi permettono di aggirare il monopolio conferito dai brevetti.

L’anno è trascorso in un dialogo tra sordi, senza alcun risultato concreto… se non la dimostrazione che i negoziatori hanno perso la coscienza della gravità della situazione (7). Lo sappiamo bene, l’articolo 6 non era la risposta ai mali dell’umanità e il problema dei prezzi non è l’unica difficoltà… La selezione razionale dei farmaci autorizzati alla vendita in un determinato paese, la realizzazione di meccanismi di finanziamento, il mantenimento e lo sviluppo di sistemi e infrastrutture sanitarie affidabili, sono anch’essi fattori determinanti. Ma non possono essere organizzati se non viene prima risolta la questione dei prezzi.

L’accordo più importante degli ultimi anni per la riduzione dei prezzi degli antiretrovirali nei paesi in sviluppo, è stata l’Iniziativa per accelerare l’accesso (Iaa) che ha permesso di diminuire il costo annuo per paziente dai 12.000 dollari del 2000 ai 420 dollari del 2003. Avviata nel maggio 2000 dall’Onusida, in partenariato con diverse agenzie delle Nazioni unite e cinque imprese farmaceutiche (Boehringer Ingelheim, Bristol-Myers Squibb, Glaxo SmithKline, Merck & Co e Hoffman La Roche), la mastodontica impresa ha partorito un topolino: in 3 anni, 80 paesi si sono dichiarati interessati; di questi 80 solo 39 hanno realizzato piani di attuazione, e meno della metà di questi (19) ha poi concluso un accordo con un’industria. In definitiva, il numero di pazienti che riceve antiretrovirali nei 19 paesi è inferiore all’1%. Complessivamente, in Africa vengono curate 27.000 persone, mentre il continente conta 30 milioni di sieropositivi (8)! Il Fondo globale per la lotta contro l’Aids, la malaria e la tubercolosi, creato nell’aprile 2001 su iniziativa del segretario generale delle Nazioni unite, Kofi Annan, a oggi ha ricevuto solo il 20% dei fondi necessari. In Cina, dove le autorità calcolano che un milione di persone sia colpita dal virus dell’immunodeficienza umana (Hiv), un’industria farmaceutica occidentale ha offerto, con grande battage pubblicitario, antiretrovirali gratuiti per un periodo di otto anni.
Ahimè: la «donazione» riguardava solo 200 pazienti! In ogni caso tutte queste iniziative, anche se fossero in grado di superare le insufficienze, non costituirebbero una soluzione a lungo termine, né per i paesi in via di sviluppo, né per i paesi avanzati.

Come si può pensare, infatti, che il costo dei medicinali possa mantenere nel tempo una crescita esponenziale che eccede ampiamente quella del resto dell’economia?

Bisogna sperare che l’iniziativa internazionale per la ricerca di un vaccino contro l’Aids (Iavi) – che riunisce industrie farmaceutiche (alcune delle quali possiedono grandi laboratori tra i più importanti del mondo), laboratori pubblici e organizzazioni non governative – abbia rapidamente un esito positivo. Il vaccino, infatti, dovrà essere messo a disposizione del maggior numero di persone al prezzo più basso possibile e in tempi brevissimi: il che, evidentemente, si potrà realizzare solo passando per una soluzione esterna all’attuale sistema dei brevetti.

«A chi appartiene una lettera? A chi la spedisce o al destinatario – o forse al postino, se non altro durante il tragitto?» Così inizia El Dueño de la herida, l’ultimo romanzo di Antonio Gala (9). Un abitante del pianeta su tre non ha regolarmente accesso ai medicinali, i tre quarti di queste persone vivono in paesi in via di sviluppo nei quali l’acquisto di prodotti farmaceutici rappresenta solo l’8% delle vendite mondiali. Eppure la capacità tecnica e finanziaria per produrre medicinali esiste. Dei 10 milioni di bambini di meno di cinque anni che muoiono ogni anno, l’80% potrebbe essere salvato se avesse accesso ai medicinali essenziali. Il solo aspetto positivo del fallimentare «processo di Doha» è stato mettere fine alle astuzie giuridiche sulle regole internazionali del commercio, riportando il dibattito sul piano etico.

Oggi ovunque, nei diversi ambiti interessati, la domanda importante è la stessa di Antonio Gala: a chi appartiene un farmaco salvavita – a chi lo ha inventato, al paziente che ne ha bisogno o all’intermediario che lo compra e lo rivende?
Una società malata Per due anni il processo di Doha ha contrapposto salute a commercio: lo scontro mirava ad affermare la priorità dell’uno o dell’altro e a stabilire quali eccezioni sanitarie si potessero concedere. Oggi ci si accorge che il diritto alla salute è una cosa e l’espansione del commercio un’altra. Promuovere il diritto alla salute implica che sia garantito il diritto di poter usufruire dei progressi tecnologici e il riconoscimento del valore supremo della dignità umana, principi riconosciuti in molti trattati internazionali e accettati dalla stragrande maggioranza degli stati. Le regole del commercio, come quelle dell’economia in generale, devono contribuire al benessere della società. Non possono in alcun caso costituire un ostacolo che impedisca a gran parte della società di beneficiare di quella ricchezza e prosperità, che, per principio, il commercio ha il compito di offrire. L’accesso alle cure, concepito come diritto fondamentale, deve essere protetto in modo attivo dai poteri pubblici. Non farlo, vuol dire accettare una società malata. Dopo Doha, ormai è chiaro: se i medicinali sono solo merci, la salute non potrà mai essere altro che un’estensione del mercato – dove cure e terapie saranno accessibili solo a chi dispone di un potere d’acquisto sufficiente.

Fin d’ora, bisogna dunque considerare il farmaco essenziale un bene pubblico su scala mondiale. Un cambiamento di prospettiva che provocherà a molti livelli modifiche sostanziali di diversa natura, alle quali la comunità internazionale e i poteri pubblici dovranno trovare risposte.

Sarà ancora possibile che un bene ritenuto di pubblica utilità a livello mondiale possa essere brevettato, cioè che qualcuno possa detenerne il monopolio creando un danno diretto a milioni di persone?

E ancora, l’oggetto (il farmaco) che rende possibile esercitare uno dei diritti fondamentali può essere sottoposto a regole che ostacolano il diritto di tutti… addirittura per vent’anni? Quale nuova forma organizzativa si dovrà pensare per la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti farmaceutici, in modo tale che siano disponibili e immediatamente accessibili a tutti coloro che ne hanno bisogno? Come riorientare l’industria farmaceutica perché, invece di occuparsi esclusivamente di espansione economica e profitto, punti a obiettivi compatibili con il miglioramento della salute e della qualità della vita? In che modo la società di domani garantirà la produzione, su scala mondiale, dei medicinali essenziali? Visto che queste sono le domande a cui dovremo rispondere nei prossimi dieci anni, il modo migliore di prepararsi è provare a formularle subito con grande chiarezza.

Siamo di fronte a un problema particolarmente complesso, nel quale intervengono attori, interessi e discorsi di natura e origini molto diverse, e che esige un approccio integrale e multidisciplinare.
Va visto in un’ottica che permetta di conciliare la legalità internazionale in vigore e i rispettivi ordini giuridici interni e che consenta di associare l’esercizio del commercio al rispetto dei diritti umani.

Non ci sono risposte che siano nello stesso tempo immediate e durature. In che modo evitare che, come per l’Aids, ogni passo avanti sembri destinato più a recuperare il tempo perduto che ad avanzare?

Alcuni, come Mfs, ritengono che l’Organizzazione mondiale della sanità, «essendo il solo organismo intergovernativo internazionale legalmente incaricato di proteggere la salute nel mondo, (…) dovrebbe predisporre un’agenda di priorità per ricerca e sviluppo» dei futuri medicinali (10). Che vengano studiate dall’Oms o da un consorzio pubblico internazionale, le priorità per la ricerca di nuovi medicinali dovranno essere fissate in funzione di reali bisogni sanitari e non di scelte di mercato.

Come finanziare questa grande impresa? Oltre ai contributi e agli investimenti che molti stati potranno fornire, il dottor James Orbinski – che nel 1999 ha ricevuto, per Medici senza frontiere, il Premio Nobel per la pace – ha lanciato l’idea di una tassa sulle vendite mondiali dell’industria farmaceutica per finanziare un’istituzione pubblica che si faccia carico della ricerca (11). Una via complementare potrebbe essere quella di destinare una parte delle tasse nazionali sul tabacco a un fondo pubblico internazionale, il che permetterebbe la partecipazione di alcuni paesi in via di sviluppo, assicurando in questo modo anche la ricerca sulle malattie tropicali.

Più che attaccare l’industria farmaceutica o puntare il dito sui suoi oppositori, dobbiamo cercare di esplorare i bisogni e, perché no, inventare per i farmaci nuove soluzioni che premettano continuità nei processi di ricerca degli scienziati, di produzione degli industriali e di cura dei pazienti. Restare inattivi o immersi in liti sterili ci porterà a crisi ancora più gravi – se è possibile – dell’attuale pandemia di Aids. Crisi di fronte alle quali non si potrà più protestare né sorpresa né ignoranza.