L’intellettuale è collettivo

Da Genova alla guerra in Iraq. Gli ultimi due anni del «movimento dei movimenti» nel volume «Prima persone. Le nostre ragioni contro questa globalizzazione» di Vittorio Agnoletto. Il libro, edito da Laterza, sarà presentato domani pomeriggio a Roma alle ore 17, presso la sala Capranichetta in Piazza Montecitorio 125.L’archiviazione dell’accusa per il carabiniere Mario Placanica di aver ucciso Carlo Giuliani è rimbalzata nel tam tam telematico del movimento dei movimenti come la conferma della volontà politica della procura genovese di chiudere definitivamente il «file» del luglio genovese di due anni fa. Una notizia attesa, in primo luogo dagli attivisti che in due anni hanno continuato a svolgere la «loro inchiesta» – ne scriveva ieri su questo giornale Alessandro Mantovani – e dagli allora portavoce del Genoa social forum. E quindi anche da Vittorio Agnoletto, che per mesi è stato il volto e la voce di quelle centinaia di associazioni, collettivi, sindacati di base, centri sociali che promossero la contestazione al G8. E a quelle giornate Agnoletto dedica molte pagine di Prima persone (Laterza, pp. 247, € 14. Il volume sarà presentato domani a Roma, alle 17, alla sala Capranichetta in Piazza Montecitorio 125). Il suo, però, non è un libro sui «fatti di Genova». Piuttosto è un giornale di bordo su gli ultimi due anni di storia italiana dal punto di vista di un attivista del movimento contro la globalizzazione neoliberista e che cerca quindi di illustrarne le ragioni e le difficoltà. Ma anche senza sottacere la straordinaria capacità di agglutinare il consenso attorno alle sue campagne. Nelle pagine introduttive Agnoletto spiega i motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro. Per molto tempo, spiega, sono stato il portavoce del Genoa social forum; per molto tempo ho cercato di individuare i punti comuni tra un cattolico di base e un militante dei centri sociali. Ora, continua l’autore, voglio tornare ad essere uno tra i tanti, forte dell’esperienza accumulata in questi due intensissimi anni, e cioè consapevole che il movimento dei movimenti è cresciuto non perché ha cercato l’unità ad ogni costo, ma perché è riuscito a far leva sulle diversità (politiche, culturali, sociali). Tra queste diversità c’è anche quella di Vittorio Agnoletto, fondatore nel 1987 della Lila, cioè della lega italiana per la lotta all’Aids dopo aver partecipato all’esperienza della nuova sinistra nata dal Sessantotto, nonché medico del lavoro a Milano. Il libro è diviso tematicamente (i media, la politica, la guerra, etc…) e alterna ricordi personali a riflessioni su ciò che è accaduto e sulle poste in gioco del presente – il significato politico della prossima riunione del G8 a Evian e del meeting del Wto a Cancun a settembre – che vedranno di nuovo per le strade «l’altro mondo possibile». Agnoletto è convinto che il «movimento dei movimenti» ha saputo esprimere una leadership, rappresentata dai tantissimi attivisti che hanno saputo far dialogare sensibilità e pratiche politiche tra loro diversissime. Non siamo però di fronte né a «rivoluzionari di professioni». Piuttosto si tratta di uomini e donne che, partendo da una «competenza settoriale», hanno lavorato a far convergere altre realtà sociali, politiche, sindacali impegnate nella stessa issue e che poi hanno cercato di individuare i nodi politici «generali» con cui quella «questione» doveva fare i conti. Così è nato il «movimento dei movimenti» e che è riuscito, proprio partendo da specificità tematiche, a funzionare come un intellettuale collettivo. Sta proprio in questa valorizzazione delle diversità che risiede, afferma Agnoletto, la spiegazione della capacità del movimento di conquistare il consenso di realtà sociali e culturali impensabili fino a ieri, afferma Agnoletto, facendo riferimento al coinvolgimento di tantissimi cattolici nell’opposizione «senza se e senza ma» alla guerra contro l’Iraq. Un libro «onesto», quindi, che considera l’attuale situazione una sosta nella lunga marcia verso «l’altro mondo possibile». Ma proprio per questo motivo alcuni nodi nella crescita politica del «movimento del movimenti» vanno sbrogliati e che nulla hanno a che fare con il rapporto con i media, con la formazione di una leadership, del rapporto con la sinistra politica riformista, ammesso sempre che ancora si possa parlare dell’esistenza di una sinistra politica riformista. Da Seattle al 15 febbraio il movimento dei movimenti è cresciuto, si è diffuso a macchia d’olio, riuscendo a modificare i rapporti di forza in molti paesi del mondo, basti pensare al Brasile di Lula. In molti casi è riuscito ad intervenire nella crisi economica del neoliberismo, come è accaduto in Argentina. Ha provato a darsi forme di organizzazione continentale, nazionale e locale – i forum sociali – che, seppur in maniera contraddittoria, sono diventate una costante nel panorama politico. Ha dato vita a campagne mondiali sul debito, sulla privatizzazione dell’acqua, sulla contestazione del regime di proprietà intellettuale, individuando nei brevetti e nel copyright lo strumento attraverso il quale le grandi corporation esercitano il potere sulla forza-lavoro e mettono in scacco la sovranità nazionale. Inoltre, ha contestato, con successo, la legittimità del Wto, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Infine, ogni tema su cui si è concentrata la sua azione politica è diventato un punto programmatico per la costruzione del «mondo possibile». E tuttavia il consenso che ha costruito non è riuscito a trasformarsi in potere di interdizione delle istituzionali nazionali e sovranazionali della globalizzazione neoliberista. E’ questo però il nodo che rischia di trasformarsi in una rete che blocca la possibilità di crescita del «movimento dei movimenti». Le vicende che hanno preceduto la guerra in Iraq diventano così emblematiche. E se il New York Times scrive che il 15 febbraio è nata la seconda superpotenza mondiale, il movimento dei movimenti di fronte alla geometrica potenza delle armi è ripiegato su se stesso. Questo non vuol dire che c’è riflusso, ma disorientamento sì. Ma sbaglia chi si affretta a considerare questo stand by come smobilitazione. Il «movimento dei movimenti» ha come cornice la globalizzazione economica. La guerra in Iraq è stata anche una risposta politica da parte dell’amministrazione statunitense a quella crisi. Nessuno dei partecipanti alle mobilitazioni contro la guerra ha mai pensato davvero di riuscire a fermare i cacciabombardieri. In molti, però, hanno sperato di poter esercitare una conflittualità radicale nei confronti dei governi coinvolti, direttamente o indirettamente, nell’invasione dell’Iraq. Una politica della trasformazione che assegna centralità ai movimenti sociali è però sempre sul crinale di una dispersione molecolare e sulla convergenza transitoria contro una delle istituzioni del potere mondiale. Naviga cioè tra la Scilla del potere e la Cariddi del contropotere. Ma se la guerra amplifica le difficoltà incontrate, nei mesi precedenti l’intervento militare in Iraq il problema si era presentato, per rimanere nel nostro paese, nella battaglia della Cgil in difesa dell’articolo 18 o contro la precarietà del rapporto di lavoro: temi considerati centrali nella costruzione di un contropotere dove esercitare una politica della trasformazione sociale. Anche in questo caso il movimento è cresciuto, ma non è riuscito a tessere la tela del conflitto sociale qui ed ora. Tra la Scilla del potere e la Cariddi del contropotere ha preferito, per il momento, trasformarsi in «opinione pubblica».Vittorio Agnoletto conclude Prima persone che nulla è quindi perduto se non si è riusciti a fermare la guerra in Iraq, perché questo movimento ha «cominciato a estrarre dalla montagna della disperazione, la pietra della speranza». Ma anche qualcosa in più. Ha accumulato potenza. Ora si tratta di farla entrare in gioco, senza ritrarsi di fronte alla posta in gioco: far diventare pratica quotidiana la conflittualità e la contestazione nei confronti della globalizzazione neoliberista.