L’artemisina dei contadini cinesi

Ora che i ritrovati chimici a base di chinino perdono rapidamente efficacia il mondo dovrà ringraziare la Cina. Quattro premi Nobel relativi a scoperte sulla malaria sono andati, nei decenni scorsi, a scienziati occidentali. Ma ora che i ritrovati chimici a base di chinino perdono rapidamente efficacia, impotenti di fronte alla diffusione di nuovi ceppi resistenti di plasmodium, il mondo dovrà ringraziare gli scienziati della Cina e soprattutto la millenaria medicina di quel paese: da là viene l’artemisina, cioè il futuro per il trattamento di prima linea della malaria. Durante la guerra del Vietnam, Ho Chi Minh, preoccupato dall’aumento dei casi di malaria fra i vietcong costretti a vivere nelle foreste in condizioni estreme, chiese aiuto ai cinesi. E gli scienziati di Pechino nel 1972 isolarono l’artemisina, il principio antimalarico presente nelle foglie della Artemisia annua. Quest’arbusto – che cresce soprattutto in aree montagnose della Cina centrale – fu usato da molti secoli nella medicina tradizionale cinese con il nome di qinghao, proprio per il trattamento della febbre e della malaria. La cura era menzionata già nei testi medici risalenti alla dinastia Han, duemila anni fa. La forma clinica fu introdotta nei protocolli terapeutici negli anni 80 e da allora la Cina ha avuto pochi casi di malaria, mentre nel mondo ne sono affette 600 milioni di persone, con un milione di morti l’anno (ne muore un bambino ogni venti secondi, e per il 75% sono piccoli africani). La febbre malarica portata dalle zanzare è il secondo killer mondiale dopo l’Aids oltre a essere causa di invalidità periodiche, con relativi danni sociali ed economici.

I risultati cinesi sono stati ignorati dalle agenzie internazionali per un lungo periodo: finché i derivati del chinino non sono diventati inutili. In effetti, nel gennaio scorso, sulla rivista medica britannica Lancet un gruppo di esperti di malaria ha ripreso le denunce fatte a suo tempo anche da Medici senza Frontiere: accusava le agenzie internazionali di negligenza, perché insistevano nell’usare i soliti farmaci malgrado in vaste aree dell’Africa essi fossero ormai inefficaci, e questo benché l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) avesse già verificato che l’artemisina può ridurre fino al 97% il tasso di mortalità. I derivati dell’artemisina (artesunato o arthemeter) hanno un’azione più rapida e sono da 5 a 10 volte più efficaci degli altri antimalarici, hanno un costo contenuto, prevengono il procedere verso la terribile malaria cerebrale, possono ridurre la trasmissione dell’infezione, in genere sono privi di effetti collaterali e, spiega il sito www.unaltromondo.it, poiché rimangono presenti nel corpo solo per brevi periodi di tempo, il rischio che si sviluppi la resistenza al farmaco è minimo.

Qualche mese dopo, gli addetti ai lavori e ai finanziamenti hanno finalmente abbracciato la buona causa. Qualche giorno fa il medico cinese Luo Rongchang ha dichiarato al Times, che all’argomento ha dedicato un reportage: «L’artemisina è un potente detossicante senza effetti collaterali ed è una vergogna che solo ora sia presa in considerazione». Ma fino all’ultimo momento, l’agenzia statunitense per la cooperazione internazionale Usaid ha messo in dubbio l’efficacia dell’ artemisia: molto strano, perché, riferisce il giornale suindicato, lo stesso esercito americano coltiva l’arbusto in un laboratorio segreto nello stato del Wisconsin, per il trattamento delle truppe presenti in Afghanistan e in Iraq.

Comunque, il boom sembra iniziato. L’Oms ne ha ordinate 100 milioni di dosi entro la fine del 2004. Ma l’artemisina ha altri aspetti positivi, extrasanitari. Il principio non può essere riprodotto in sintesi e quindi il relativo arbusto deve essere coltivato: ecco una fonte di reddito naturale e ad alto valore aggiunto per i contadini di zone montagnose della Cina centrale – che le autorità stanno convincendo a lasciare il mais – nonché di altre zone. Le autorità cinesi dicono di poter coltivare tutta l’artemisia che il mondo vorrà, più che raddoppiando il reddito dei contadini. Anche Vietnam e Thailandia potrebbero avviare la produzione. Rimarrà da vedere se i prezzi di vendita rimarranno bassi.