La ricerca Italiana alla deriva

L’Italia resta agli ultimi posti in Europa per le risorse umane e finanziarie dedicate alla ricerca. A sottolinearlo ancora una volta è la Corte dei Conti, nelle considerazioni finali sul controllo dell’esercizio 2001 del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Un intervista a Giorgio Sirilli dell’Istituto di studi socio-economici sull’innovazione e le politiche della ricerca del Cnr.
Il massimo organo di controllo amministrativo del nostro paese ha bocciato in tutto e per tutto la situazione della ricerca scientifica italiana. Lontanissimo il traguardo europeo del 3 per cento del Pil dedicato alla ricerca fissato a Barcellona. Quasi inesistente il “mercato interno della conoscenza”, cioè gli investimenti privati e la domanda di innovazione da parte delle aziende. Invisibile anche una “strategia unitaria che fissi obiettivi nazionali”. Inattuata la rappresentanza della comunità scientifica, quel Consiglio nazionale della scienza previsto sulla carta dalla riforma Berlinguer ma che non ha mai visto la luce. Inadeguate anche le ipotesi di riforma attuali, giudicate dalla Corte “circoscritte e prive di un’ottica di sistema”, incapaci di “superare l’eccessiva frammentazione di enti e ministeri e, in particolare, l’assenza di un soggetto unico che coordini le politiche generali nel settore della ricerca e sviluppo”. Anche il Cnr sarebbe ancora frammentato e privo di “massa critica”. Abbiamo quindi chiesto a un esperto del settore, Giorgio Sirilli dell’Istituto di studi socio-economici sull’innovazione e le politiche della ricerca del Cnr (Ispri – Cnr), autore di un recente studio su questo tema, di darci un parere sulla situazione della ricerca pubblica italiana.

Professor Sirilli, che ne pensa della relazione della Corte dei Conti?

“Dal mio punto di vista la Corte è andata ben al di là dell’analisi dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione del Cnr, entrando anche nel merito delle scelte scientifiche e organizzative, cosa che non le compete e per cui non dispone dei necessari elementi di conoscenza. Inoltre non condivido la sua assunzione a favore di un sistema della ricerca fortemente coordinato”.

L’Italia riuscirà a raggiungere l’obiettivo di Barcellona, quel 2 per cento del Pil in ricerca investito dalle aziende più l’1 per cento dallo Stato entro il 2010?

“Sono molto scettico. Alcuni paesi, tra cui il nostro, non ce la faranno mai a raggiungere quella soglia. Altri invece, come la Svezia e la Finlandia, l’hanno già superata. Il vero problema, italiano e non solo, è la ricerca svolta dai soggetti privati. Come possono i governi stimolare il sistema delle imprese a investire somme così ingenti nella ricerca? Gli strumenti ci sono, ma andrebbero generosamente finanziati in un quadro di sviluppo economico-industriale di lungo periodo. Al momento non vedo nessuna novità nelle strategie nazionali se non le dichiarazioni di privilegiare la ricerca applicata a scapito di quella di base e la riduzione dei finanziamenti pubblici per la ricerca”.

E’ giusto calcolare gli investimenti sulla ricerca in termini di percentuale sul Pil?

“In teoria gli investimenti nella ricerca dovrebbero essere anticiclici. Dovrebbero cioè mirare a costruire il futuro, stringendo la cinghia nei periodi di congiuntura bassa. Nella realtà accade esattamente il contrario: quando l’economia va bene le imprese e lo stato destinano più soldi e programmi all’innovazione, per poi toglierli subito al primo accenno di crisi. È un controsenso. Ci dovrebbe essere una leadership responsabile che indichi quali sacrifici fare per gli investimenti nella produzione di conoscenze. Il Giappone, per esempio, pur vivendo una crisi economica ormai ultradecennale, ha continuato a investire decisamente nella ricerca sottraendo le risorse ad altri settori. I frutti di questa scelta si vedranno nel futuro”.

In Europa l’economia va male: di fatto fino al 2003 tutti i finanziamenti sulla ricerca sono bloccati. Ma il governo italiano non aveva approvato linee guida che fissavano i punti cardine per la ricerca scientifica fino al 2006?

“Sì, ma le previsioni finanziarie per la ricerca erano vincolate all’aumento del Pil del 2,5 per cento annuo. Cosa che non si è avverata. Dietro le Linee guida c’era la copertura finanziaria mediante i proventi delle licenze Umts, ma alla fine il governo è stato costretto ad aumentare il prezzo delle sigarette per sostenere la ricerca e l’istruzione”.

Uno dei principali problemi italiani è quello delle risorse umane: poche e sottopagate. Qual è lo scenario?

“Il dottorato di ricerca è stato introdotto oltre 10 anni fa. In Italia ogni anno si laureano 4.000 dottori di ricerca. Andrebbero aumentati almeno fino a 6.000. Inoltre, oggi nelle discipline tecnico-scientifiche sono solo 1.500. Troppo pochi. Guardando all’intero scenario delle risorse umane, ai ricercatori italiani andrebbero garantiti uno stipendio almeno comparabile con quelli europei, una sicurezza del posto di lavoro e una possibilità di carriera. Questo consentirebbe di attrarre verso la professione i necessari talenti, anche dall’estero, e di evitare fughe verso lidi più remunerativi. Per far questo però è necessaria una strategia di lungo periodo”.

Il governo ha scelto di privilegiare la ricerca finalizzata all’innovazione tecnologica e produttiva. Condivide questa impostazione?

“Da vari anni assistiamo, anche a livello internazionale, a una progressiva enfasi sulla ricerca finalizzata, con una diretta rilevanza sociale. Non vi sono dubbi che la ricerca si legittimi per quello che “restituisce” alla società, ma credo che ormai il dibattito sia andato molto oltre il dovuto, e che la scienza tenda a essere misurata con il metro del ragioniere: il suo impatto sul fatturato, sull’occupazione, sulle esportazioni. Non dobbiamo dimenticare che l’avanzamento delle conoscenze è uno dei fondamenti delle società evolute – previsto anche nella nostra Carta costituzionale – e che il suo perseguimento deve avvenire in un quadro di autonomia. Il mondo della ricerca pubblica deve dunque produrre nuove e originali conoscenze, mentre le imprese hanno la missione di avvalersi di tali basi per produrre nuovi beni e servizi. A ciascuno il suo ruolo”.

Magazine, 6 giugno 2003 © Galileo