La partita dei brevetti

Normalmente nella maggior parte del mondo i poveracci muoiono in silenzio, lontano dallo sguardo indiscreto dei riflettori. Nella primavera del 2000 però accadde qualcosa che cambiò le carte in tavola e trasformò una disperata battaglia individuale in una lotta globale. Un gruppo di industrie farmaceutiche non esitò a fare causa a un governo, quello Sudafricano, per avere osato approvare una legge per arginare l’epidemia di Aids che infestava – e infesta, il paese. La legge Mandela, così si chiamava, avrebbe sospeso il pagamento dei brevetti, e questa era una cosa inaccettabile. Il processo, dal quale le compagnie furono costrette a ritirarsi, fu un autogol colossale soprattutto perché portò sotto i riflettori erano andate le cifre della disparità di prezzo fra generici e originali.

Non solo Aids
Normalmente, quando viene introdotto un concorrente generico, il prezzo del prodotto brevettato si riduce drasticamente. Il fluconazole, ad esempio, viene commercializzato da una compagnia thailandese a 29 centesimi di dollaro e da una compagnia indiana a 64. La stessa medicina, stavolta di marca, viene venduta per 10 dollari in Kenya, per 27 in Guatemala e, almeno fino a poco tempo fa, per 8 dollari in Sud Africa. Quando una compagnia farmaceutica vende lo stesso prodotto in diversi paesi adotta in genere una strategia di differenziazione dei prezzi, regolando i livelli sulla possibilità del mercato. E’ ovvio quindi che, dove sono disponibili i prodotti generici, quelli di marca dovranno tenere i prezzi più bassi per reggere la competizione costituita dalla presenza di alternative più economiche. Lo stesso prodotto sarà invece venduto a prezzi più alti lì dove non c’è la concorrenza, indipendentemente dalla condizione economica del paese. E’ così che si creano dei drammatici paradossi. Secondo Health Action International (un’associazione internazionale che si occupa di accesso alla salute) che, nel 1998, ha stilato un rapporto sul Zantac, un farmaco anti-ulcera prodotto dalla Glaxo, la compagnia ha abbassato il prezzo in India solo quando alcuni stabilimenti locali hanno cominciato a produrre ranitidine, il nome generico per la sostanza attiva contenuta nel Zantac. Così, in India, la Glaxo ha deciso di vendere il Zantac a 2 dollari a confezione ma ha continuato a venderlo altrove a ben altri prezzi, a seconda della vicinanza con la fonte alternativa: 3 dollari in Nepal, 9 in Bangladesh, 30 in Vietnam, 37 in Thailandia, 41 in Indonesia, 55 in Malesia, 61 a Sri Lanka, 63 nelle Filippine e ben 183 dollari in Mongolia. Il Zantac viene anche venduto per 23 dollari a confezione in Australia, 77 in Canada, 196 in Cile, 132 in El Salvador, 150 in Sud Africa e 97 in Tanzania.

Le materie prime
Questo tipo di strategia, nota in gergo tecnico come “prezzo di trasferimento”, viene impiegata anche nel commercio delle materie prime utilizzate per la produzione dei farmaci, cosa che contribuisce non poco a innalzare il costo delle medicine nei paesi in via di sviluppo. Uno studio condotto dal dottor Zafar Mirza, che fa parte del Network Association for Rational Use of Medication pakistana, ha confrontato il prezzo delle materie prime farmaceutiche importate dal Pakistan per la produzione locale dei farmaci delle corporation. Viene fuori che le transnazionali esportano le materie prime per le loro sussidiarie pakistane a prezzi molto più alti di quelli in corso sul mercato internazionale, dove la competizione costringe a tenere basse le tariffe. Nel caso di un farmaco prodotto da una compagnia tedesca, ad esempio, il prezzo delle materie prime per la sussidiaria pakistana si aggira sugli 11.092 dollari al chilo compratati ai 320 dollari del mercato internazionale: una differenza del 3.360 per cento! Altro esempio è quello di un’azienda italiana: il prezzo della materia prima venduta dalla casa madre alla sussidiaria pakistana era del 7.044% maggiorato rispetto al prezzo internazionale. Sarebbe logico aspettarsi che, nei paesi poveri, le medicine costino di meno. In realtà succede quasi sempre il contrario: più è povero il paese – ovvero meno possibilità ha di “copiare” i farmaci in versioni generiche – e più i farmaci sono costosi. Un altro studio di Health Action International ha mostrato che il prezzo al dettaglio di 10 delle 13 medicine più usate nel mondo è più alto in Tanzania (PIL pro capita annuale di 120 dollari) che in Canada (PIL 19.380 dollari). Il prezzo medio al dettaglio delle 20 medicine più utilizzate in 10 paesi in via di sviluppo del Centro e del Sud America sono più alti della media dei prezzi al dettaglio degli stessi farmaci in 10 paesi dell’OCSE, il “club dei paesi ricchi”. La media dei prezzi registrati in Sud Africa è più alta che in ognuno degli otto paesi più sviluppati del mondo.

Ricerca e produzione
L’industria farmaceutica giustifica i brevetti e gli alti costi delle medicine sostenendo che la ricerca e lo sviluppo dei nuovi farmaci è molto costosa. Ultimamente, però, anche questa argomentazione viene messa in discussione “conti alla mano”. Secondo le stime fornite dal farmaceutico per scoprire e sviluppare un nuovo farmaco ci vogliono fra i 350 e i 500 milioni di dollari, secondo i ricercatori indipendenti, invece, non sono necessari più di 30-160 milioni di dollari. Ma qualsiasi sia la stima che si ritiene valida, i profitti ricavati dalla maggior parte delle medicine salvavita superano ampiamente i soldi investiti. Nel 1999, ad esempio, le vendite del solo ciprofalxin della Bayer hanno totalizzato più di un miliardo e mezzo di dollari mentre il fluconazole della Pfitzer ha incassato 1 miliardo di dollari. E stiamo parlando di un solo anno. Inoltre, una gran quantità delle medicine brevettate non sono state scoperte nei laboratori delle industrie private ma in quelli di istituzioni pubbliche e università finanziate dai contribuenti. Però, anche se istituzioni pubbliche come il National Institutes of Health, l’Istituto nazionale di sanità statunitense, hanno avuto un ruolo fondamentale nella scoperta di numerosi farmaci, alla fine la maggior parte dei profitti derivati dalla vendita delle nuove medicine sono andati ai privati. Inoltre, non è un segreto che le industrie farmaceutiche spendano più nel marketing e nell’amministrazione che nella ricerca: il 30-40% del ricavato contro appena il 10-20% destinato alla ricerca e sviluppo.