La milza di Moore

A John Moore, colpito da una rara forma di leucemia, viene asportata la milza nella speranza di fermare il male. Ma il medico nasconde a Moore che la sua milza produceva linfociti in modo assolutamente unico e da questi si potevano sviluppare farmaci rivoluzionari.La prima volta che John Moore comincia a preoccuparsi per la sua salute è nel 1976, mentre sta seguendo come ingegnere la costruzione di un oleodotto in Alaska. È allora che un quarto pensiero si aggiunge alla sua vita fatta di scenari naturali di bellezza primordiale, bulloni che si stringono ad unire tubi d’acciaio e telefonate affettuose alla moglie a Seattle: ora fra i pensieri c’è la sua milza. All’inizio è un semplice fastidio, che avverte quando è seduto. Ne parla col barbiere del cantiere, ci scherzano su. Poi il fastidio si trasforma in dolore acuto e persistente. Improvvisamente John decide che il fatto è grave: dopo i primi accertamenti arriva la conferma che la sua milza che dovrebbe pesare duecento grammi si è ingrandita al punto da pesare diversi chili. Deve farsi vedere da uno specialista al più presto.

John chiama immediatamente suo padre a Los Angeles, che gli fornisce due nominativi: il dottor Johnson e il dottor Golde. Johnson è fuori città, ma fortunatamente Golde accetta di incontrarlo subito presso l’ospedale dell’università di Los Angeles. Il 5 ottobre viene visitato. Moore appare affetto da una rarissima forma di leucemia. La milza, che normalmente ha il compito di filtrare le cellule morte dall’organismo, si è messa a produrre una quantità abnorme di linfociti, alterando il sistema immunitario al punto da attaccare anche le cellule sane. La moglie di Moore viene a sapere dai medici che a John non resta che farsi asportare la milza, con pochissime probabilità di successo. Pochi giorni dopo è già in sala operatoria, operato da un fedelissimo di Golde: il dr. Fleming. Un nome che a John pare di buon auspicio.

L’intervento è un successo completo e inaspettato. Lo stesso Golde riesce a stento a nascondere la sua sorpresa nel vedere Moore ristabilirsi del tutto nel giro di poche settimane. John riprende la sua vita di sempre. Golde si mostra attento e scrupoloso: fissa le visite di controllo a pochi mesi l’una dall’altra, ed è lui stesso a telefonare a Moore per ricordargli ogni appuntamento.

Passano gli anni, e Moore chiede a Golde se possa essere visitato da un medico di sua fiducia a Seattle, anziché prendere ogni volta l’aereo per venire a Los Angeles. Golde insiste affinché continui a tornare da lui. «Se è un problema di denaro, posso fare in modo che le spese di viaggio e di alloggio vengano pagate dall’ospedale». John accetta, ma comincia a insospettirsi. Anche perché Golde lo ospita al Beverly Willshire Hotel, un posto un po’ troppo lussuoso per le sue abitudini.

John ci vede sempre meno chiaro. Nel settembre 1983, all’uscita dalla dodicesima visita di controllo, la segretaria di Golde sottopone a Moore un foglio da firmare, una “semplice liberatoria”: “Io, John Moore, conferisco / non conferisco volontariamente all’Università della California tutti i diritti che io possa avere su qualunque linea cellulare o altro potenziale prodotto che possa essere sviluppato dal sangue e/o dal midollo spinale estratto dal mio organismo”.

John segna il foglio in modo da non conferire i diritti. La segretaria gli fa notare che ha barrato in modo errato, ma non lo convince a cambiare la sua decisione. Arriva il dottor Golde, che insiste affinché Moore firmi correttamente il foglio. John declina l’invito. In visita presso la madre trova un messaggio di Golde sulla segreteria telefonica con la stessa richiesta. Pochi giorni dopo apre una lettera. È ancora una copia della liberatoria: una freccia su un foglietto giallo attaccato sul modulo lo invita a barrare nel modo corretto.

Adesso John cerca un avvocato. Lo trova in Stanford Gage, un professionista di Beverly Hills specializzato in casi medici. Quello che Gage scopre è oltre ogni immaginazione: con il numero di registrazione 4.438.032 Golde ha brevettato una particolare coltura di cellule sotto il nome di “Mo-cells”, “tratte da un soggetto di Seattle”.

Golde aveva scoperto fin dalla prima visita che la milza di Moore produceva linfociti in modo assolutamente unico, e poteva ragionevolmente condurre allo sviluppo di farmaci rivoluzionari. Prima dell’operazione aveva così istruito il personale a porre immediatamente in coltura le cellule della milza di Moore. Era importante però continuare a prelevare campioni di midollo osseo da Moore, per favorire ulteriori studi delle sue caratteristiche genetiche. Al momento della scoperta da parte di Gage, Golde aveva già venduto parte dei diritti sulle cellule di Moore a Genetics Inc. – in cambio di 75.000 azioni della società – e successivamente alla Sandoz.

Nel 1984 si arriva alla prima azione legale contro Golde. Da qui l’odissea di John Moore prende una dimensione kafkiana. Scontrarsi contro un Golde spalleggiato dai legali della Sandoz equivale a uno scontro durissimo, tutto da giocare sull’interpretazione di una legge che non prevede il furto di materiale genetico umano. Gage decide di basare l’accusa sul reato di conversion, l’equivalente di un furto di proprietà altrui. Il materiale genetico di Moore, sebbene prelevato da un organo asportato e teoricamente destinato alla distruzione, resterebbe comunque di sua proprietà e ogni diritto derivante dallo sfruttamento economico di materiali derivati dallo stesso spetterebbe a lui.

Ma l’avvocato di Moore si trova a muoversi in un territorio difficile: le colture che derivano dalle cellule di Moore, in realtà, non sono dissimili da quelle che si potrebbero ottenere da qualunque altro essere umano. La particolarità del caso è dato piuttosto dalla sovrapproduzione di linfociti, che permette di identificare la sezione di DNA responsabile, normalmente invisibile: Golde è stato in grado di selezionare la parte di DNA utile senza dover cercare al buio fra i miliardi di basi che compongono la doppia elica del codice della vita. Gage studia giorno e notte il da farsi.

All’apertura del processo il giro d’affari sulle cellule di Moore è già di milioni di dollari. I media si occupano del caso. L’opinione pubblica si schiera contro di lui: Moore appare come un uomo senza scrupoli che tenta di approfittare di un uomo, il dottor Golde, che gli ha salvato la vita. John e il suo avvocato ricevono telefonate anonime in continuazione.

Intanto la giuria incaricata di valutare il caso Moore si trova spaccata in punti di vista distanti. Un veemente dibattito interno mette in luce vari aspetti del caso; c’è il problema di considerare un tipo affatto nuovo di “furto”, e se questo possa valere per un materiale “di scarto”, del quale Moore si è sbarazzato volontariamente. Se sia da privilegiare il bene della comunità a discapito del diritto della persona a disporre del proprio corpo. Se non si corra il rischio, dando ragione a Moore, di bloccare la ricerca medica, o di avallare la vendita del proprio patrimonio genetico da parte di privati cittadini. Tutto contribuisce a confondere sempre più il bianco con il nero, per chiunque diventa difficile distinguere chi detenga i diritti sulle cellule di Moore.

Nel 1990, sei anni e undici giudici dopo (tanto dura il processo) la Corte Suprema della California, pur ancora divisa nel giudizio, respinge le richieste di Moore: non detiene di alcun diritto sul materiale derivante dalle sue cellule. Il progresso e il bene comune sono più importanti del singolo. Il dottor Golde è responsabile soltanto per aver nascosto la sua attività a Moore, che ha diritto a un indennizzo rimasto segreto.

Qualche tempo dopo, nella sua villa di Los Angeles Golde controlla gli ultimi conti del suo patrimonio mobiliare, che ammonta a svariati milioni di dollari, guadagnati con la milza di Moore. A Seattle, Moore continua a vivere senza milza. Va a sistemarsi i capelli, scambia due chiacchiere sul tempo che passa, e uscendo resta ad osservare con un sorriso amaro le ciocche spazzate via dal barbiere, che lo saluta con lo sguardo.

Tratto da Filmaker’s Magazine (2002) – Autore Daniele Cossu