La cultura dell’Aids

La “sindrome da persona HIV+” e la percezione collettiva. Cosa cambia quando si segue una terapia antiretrovirale? E come si può lavorare su questi cambiamenti senza provarli?E’ una conquista affermare che, a metà del 2004, i farmaci contro l’AIDS hanno salvato e salvano molte vite nei paesi dove sono disponibili. Le molecole sul mercato sono oramai quasi 20. La tendenza dell’industria a “rivisitare” alcune molecole vecchie per avere formulazioni più agevoli, piuttosto che a sviluppare molecole realmente di nuova concezione, è quanto mai presente. E’ corretto e doveroso, se ci sono molecole efficaci, attuare questo tipo di strategia. Tuttavia i limiti di queste prime 20 molecole sono lampanti agli occhi di tutti: gli effetti collaterali e i problemi di necessaria aderenza.

Senza entrare nel dettaglio di argomenti più volte trattati, sono significative le parole di un’amica che, due anni fa, ad un simposio satellite di persone HIV+ al congresso mondiale di Barcellona, disse: “Guardiamoci! Sembriamo dei sopravvissuti ad un campo di concentramento”. Obbiettivamente quasi nessuna persona che assume terapia è in grado di riconoscersi, in quanto chi è in terapia da più di due o tre anni vede il proprio corpo modificato dai farmaci.

Convivere con il virus è gravoso sia per gli effetti sul metabolismo (colesterolo, trigliceridi, insulina, anemia, ecc.) sia per gli effetti sul proprio corpo (lipodistrofia nelle varie forme). Allora si corre ai ripari: ginnastica, integratori, altri farmaci…”abbassa questo valore”, “alza quest’altro”, “l’ormone è basso” “colesterolo buono o cattivo?”… Volutamente non esaminiamo la ‘convivenza con l’HIV’ da un punto di vista psicologico e sociale. Volutamente non esaminiamo il problema ‘convivenza con l’HIV’ da un punto di vista dell’ospitare il virus di per se stesso: stress immunitario, problemi neurocognitivi, ecc… .

Ciò che molti “non pazienti”, anche medici, non comprendono, è il trauma della modifica del corpo della persona HIV+. Una persona HIV+ in terapia sviluppa un corpo che è comunque differente da quello naturale. O si accetta passivamente questa situazione (lipodistrofia nelle varie manifestazioni) o si continua a modificare il corpo per tamponarne gli effetti con la pratica di attività sportiva specifica (la “palestra”). E’ differente scegliere di fare sport per diletto (forma fisica, ecc…) o per autostima, per piacere o per svago, piuttosto che doverlo fare per rimodellare il corpo ad una situazione che non è mai quella iniziale, quella naturale.

La “sindrome da persona HIV+” nel futuro, sulla base di queste molecole, si prospetta dunque come una corsa ad ostacoli tra una carica virale ed il colesterolo elevato, tra le braccia e il viso lipoatrofici ed il numero di CD4. Questo è al momento lo scenario realistico della persona HIV+. Da qui alcune teorie estremiste, quanto mai comprensibili, rispetto al fatto che gli attivisti sui trattamenti e le terapie devono necessariamente essere persone HIV+: la comprensione totale di certe situazioni la si ha solo in questo caso. La prospettiva della persona sieropositiva è differente e non immaginabile da una persona sieronegativa: non è ‘egoismo patologico’, ma è semplice visione delle cose da differenti prospettive.

L’utente-paziente è dunque, e sarà sempre così, la figura centrale di questo mondo: non dunque rappresentanti, titolati non si sa perché e da chi. Sono le associazioni di pazienti che devono rivestire un ruolo di advisory nei confronti della ricerca e di advocacy tra comunità e istituzioni.

Così anche la comunicazione alla cittadinanza dovrebbe essere sempre mediata dai diretti consumatori di farmaci. Se è indubbio il ruolo del medico nella gestione di una patologia così complessa, è invece molto opinabile il ruolo del medico stesso nel giudizio assoluto dei farmaci in commercio. Il medico può legittimamente esprimere, in qualità di prescrittore, quelle che sono le sue osservazioni basate sulla pratica clinica e sugli studi scientifici. Ma i protagonisti di quegli studi, cioè i pazienti, hanno tutto il diritto di avere la prima parola sulle tre questioni: farmaci,”terapie” ed effetti collaterali.

Si fatica dunque a comprendere il tono delle interviste che di recente compaiono su giornali divulgativi, pubblicizzando una molecola piuttosto che un’altra, da parte di medici, anche affermati, nel settore HIV. Un messaggio così erroneo e semplicistico su certe molecole presunte miracolose (evidenziando in modo banale un aspetto positivo piuttosto che un altro negativo della stessa molecola) dà al mondo esterno (la cittadinanza) il falso messaggio che il problema AIDS sia sulla via di risoluzione anche da un punto di vista terapeutico: messaggio quanto mai improprio, come testimoniato ogni giorno dalle associazioni di pazienti e dai pazienti stessi.

Se il falso messaggio viene recepito, nell’immaginario della cittadinanza il problema HIV sembra risolto, anche dal punto di vista della prevenzione.

Per concludere, in questa sede non si vuole inneggiare al ruolo delle associazioni dei pazienti o demolire quello dei medici e dei ricercatori: si vuole solo mettere in guardia, legittimamente, dal fatto che si trasmetta il messaggio ambiguo di “normalizzazione terapeutica”, mentre la realtà è ben diversa. Il messaggio ambiguo infatti è anche dovuto alla mancanza di preparazione specifica da parte di certa stampa divulgativa.

Alcuni medici increduli e risentiti da questa affermazione dovrebbero migliorare il proprio flusso di comunicazione con i pazienti e collazionare le informazioni più oggettive, al di là del numero di CD4 e di carica virale.

Ricordiamo che la qualità della vita di coloro che sopravvivono grazie ai farmaci, a sua volta produce un indotto elevato: se dovessimo fare un’analisi economica, l’indotto prodotto da una persona con l’HIV è enorme, sia per i farmaci HIV, che per i farmaci somministrati per gli effetti collaterali, sia per il prolungamento della vita. Indotto che agisce anche sul terreno culturale permettendo e obbligando la persona che crea questo indotto a informare e fornire dati di “prima mano”.

Le associazioni di pazienti debbono essere portavoce di questa “cultura” e i cittadini hanno il diritto di essere informati.