Iniqua, ideologica, crudele, addirittura di stampo “burqa”. Le reazioni alla legge sulla procreazione medicalmente assistita, promulgata il 19 febbraio scorso, sono state durissime e hanno visto scendere in campo associazioni di donne e di malati. Ma se il fronte dello sdegno è stato unanime non lo è stato altrettanto quello dell’azione. Finora, i radicali sono rimasti quasi soli a raccogliere le firme per il referendum abrogativo della legge. Più volte annunciata per il dopo elezioni, la discesa in campo di tutte le forze laiche si è infatti concretizzata solo il 13 luglio, con il deposito in Cassazione di altri quattro quesiti abrogativi “parziali”. Tre di questi, presentati da un comitato trasversale formato da personaggi della politica, della scienza, della medicina e dell’associazionismo, puntano a cancellare quei passi della legge che non tutelano la salute della donna, che vietano la fecondazione eterologa e che limitano la ricerca scientifica. Il quarto quesito, sottoscritto da dodici donne, parlamentari, sindacaliste e rappresentanti di associazioni, chiede l’abrogazione dell’articolo 1, quello che definisce il concepito come titolare di diritti.
Insomma, se il fronte politico sembra ricompattarsi, gli aspetti organizzativi si complicano. I quattro quesiti sono stati depositati ma ci vorrà ancora del tempo prima che i moduli siano stampati, vidimati e spediti alle segreterie comunali. Tempo prezioso, se si punta allo svolgimento del referendum nella prossima primavera, cosa possibile solo se si raggiungono le 500 mila firme valide entro il 30 settembre. Altrimenti tutto slitta al 2007. Per questo si è pensato di unire le forze e di allestire tavoli comuni per tutti i cinque referendum, utilizzando un unico modulo. In questo modo i dati del cittadino vengono trascritti una sola volta e vengono apposte tante firme quanti sono i quesiti che si vogliono sostenere. E poi si confida nei tradizionali appuntamenti ludico-politici estivi, come le Feste de l’Unità, per raggiungere il maggior numero di potenziali firmatari.
Intanto, aspettando la raccolta “comune”, i Radicali Italiani continuano a impegnarsi sul referendum abrogativo “secco”. Il meccanismo referendario prevede che, dal momento in cui si deposita un quesito, per provare a raggiungere le 500 mila firme si abbiano a disposizione sei mesi, al termine dei quali si seleziona il periodo più fruttuoso, ovvero i tre mesi consecutivi nei quali si sono raccolte più firme, sempre che si sia raggiunto il quorum e calcolando un margine di sicurezza per compensare quelle che inevitabilmente vengono annullate una volta consegnate. Per questo, fallito l’obiettivo nei primi tre mesi, la raccolta dei radicali continua. Le firme prese nel mese di luglio potranno sommarsi a quelle della raccolta comune, aumentando le possibilità di successo per il quesito unico. “Finora abbiamo 160 mila firme, ma dobbiamo arrivare a quota 750 mila entro il 30 settembre” dice Rita Bernardini che, insieme al segretario di RI Daniele Capezzone, dalla mezzanotte del 14 ha intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro l’oscuramento mediatico della iniziativa referendaria: “Nello spazio di un mese di programmazione”, scrivono in una lettera aperta alla commissione parlamentare di vigilanza, al consiglio di amministrazione della Rai e ai direttori di tutte le testate televisive nazionali, “alla questione sono stati dedicati esclusivamente pochi minuti della trasmissione ‘Cominciamo bene’ (in onda su Raitre alle dieci del mattino) e una puntata del programma ‘Omnibus’ (in onda su La7 alle otto del mattino). Nient’altro…”. Uno sforzo spasmodico, dunque, quello dei radicali, che raggiungerà l’acme con il Referendum Day (28-luglio -1 agosto) e che li vede affiancati da Rifondazione Comunista, dal Movimento Repubblicani Italiani, dall’Italia dei Valori e dai Socialisti Democratici Italiani (Sdi). “Fin da subito abbiamo messo a disposizione i nostri amministratori provinciali e comunali per l’autentica delle firme nei vari tavoli di raccolta”, spiega Roberto Biscardini, segretario regionale dello Sdi. Anche alcuni amministratori provinciali e comunali di Alleanza Nazionale, pur non sottoscrivendo la richiesta referendaria, si sono resi disponibili per l’autentica delle firme.
Per l’abrogazione parziale della legge si sono espressi invece diversi deputati Ds, ritenendo rischioso il vuoto legislativo, il “ritorno al far west” ante legge. Ma una posizione ufficiale del partito, non facile e per certi versi imbarazzante, considerata le dichiarazioni pro legge di alcuni autorevoli esponenti della alleata Margherita, non c’è ancora, anche se è stata fortemente caldeggiata da alcune donne del partito, come Katia Zanotti. “Dopo l’approvazione della legge”, accusa la deputata DS, “il tema doveva essere al centro dell’agenda politica della coalizione e non è stato così. Fino ad oggi si è trattato soprattutto di iniziative personali delle donne del partito”. A favore dei tre quesiti parziali si sono espressi Gavino Angius, capogruppo Ds al Senato, e Cesare Salvi, vicepresidente del Senato. Ma lo schieramento è ampio e trasversale, contando anche alcuni parlamentari della maggioranza, come il repubblicano Antonio Del Pennino, il forzista Alfredo Biondi e Chiara Moroni del Nuovo Psi e le associazioni raccolte nel Comitato No alla legge 40. Tutti comunque sembrano convinti che ce la si possa fare: “Contemporaneamente stiamo lavorando ad una nuova legge che salvaguardi e rispetti la salute della donna e sia in linea con quelle degli altri paesi”, annuncia Barbara Pollastrini, coordinatrice delle donne Ds.