Voci dal Forum sociale africano

Pur tra mille difficoltà, il continente nero tenta di organizzarsi contro l’ordine liberista: il Forum sociale africano, che si è tenuto ad Addis Abeba all’inizio del gennaio scorso, ha visto la presenza di quarantatré paesi. Tuttavia, mentre a Porto Alegre c’è la ressa, qui hanno partecipato solo due associazioni occidentali. Come dire che l’Africa, oppressa per secoli ma ricca di una grande tradizione in fatto di solidarietà, deve procedere a tappe forzate per farsi ascoltare. È l’inizio di gennaio, nei corridoi del Forum sociale africano (Fsa) ad Addis Abeba, un contadino della Repubblica democratica del Congo (Rdc) si chiede: «Quando riusciremo a parlare e a farci ascoltare?» La sua presenza qui è un buon esempio di tutte le fatiche e le incognite che si sono dovute affrontare per realizzare questo secondo forum (1) – emanazione del Forum sociale mondiale di Porto Alegre – , il cui compito è quello di fare finalmente emergere la voce africana dall’oceano della globalizzazione. Lo ha avvisato dell’incontro la posta elettronica, e precisamente una e-mail della Confederazione contadina proveniente da Parigi, come se l’asse Nord-Sud fosse ancora oggi l’unico valido. La realizzazione di un movimento sociale africano è ancora in fase embrionale e l’informazione circola male. È già una fortuna che la posta elettronica abbia funzionato, fra un’interruzione di corrente e l’altra! Alcuni delegati ci hanno messo tre giorni per arrivare nella capitale etiopica, tanto disastroso è lo stato delle strade e aleatori i collegamenti aerei interafricani. Alla ricerca di un’«altra Africa», svincolata dall’insidia della globalizzazione liberista, sono comunque arrivati 250 rappresentanti del mondo associativo, contadini, operai o artisti, in rappresentanza di 43 paesi africani, alcuni dei quali in guerra. La martellante pubblicità dell’associazione Enda (Environment and Development Action), che ha sede a Dakar, e della scrittrice del Mali Aminata D. Traoré ha permesso di ottenere sovvenzioni e di organizzare l’arrivo di tanta gente (2). Ma in quanti non hanno saputo che il forum sociale si riuniva o non hanno potuto recarsi nella capitale etiopica per mancanza di mezzi? La rappresentatività del Fsa e il senso stesso della sua attività ne sono inevitabilmente sminuiti e gli organizzatori, così come i delegati, hanno sottolineato la necessità di informare dell’incontro, riflettere sui mezzi necessari a fare crescere la partecipazione ai prossimi forum e pubblicizzare le rivendicazioni (3). Scopo prioritario del movimento sociale africano è la contestazione delle politiche economiche applicate da decenni al continente, che lo sprofondano inesorabilmente nella miseria e nella guerra, destabilizzando gli stati. Come spiega Taouffik Ben Abdallah di Enda, «compito del Fsa è permettere alla società civile di organizzarsi come contropotere, per poter contare nei luoghi dove si elaborano le regole imposte all’Africa». Il Forum mira anche a federare movimenti sparsi a livello continentale e costruire un discorso comune. Al di là di tutto questo, vuole riconquistare il diritto di parola di fronte ad una «comunità internazionale» ridotta di fatto ai soli potenti: lottare contro un’alienazione storica che ha spodestato gli africani del loro destino, sottomettendoli sempre – in parte vittime e in parte complici – alla sfruttamento economico e culturale da parte delle potenze straniere. La difficoltà sta nel fatto che l’oppressione, un tempo opera dei colonizzatori, è ormai esercitata dalle stesse élite africane. Un «diabolico consenso sul neoliberismo» lega le nostre classi dirigenti, afferma preoccupa Aminata D. Traoré. Molti dirigenti africani partecipano allo sfruttamento economico del continente, assecondando docilmente le ricette dei finanziatori internazionali. Spesso formati nelle università occidentali, passano più tempo nei paesi del Nord o nei simposi internazionali che a casa loro. Lontani dalla realtà sociale, questi governanti hanno abbandonato ogni resistenza. Alcuni si sono addirittura trasformati in zelanti promotori dello sfruttamento commerciale dei loro paesi. Ad esempio, i presidenti Abdoulaye Wade del Senegal, Thabo Mbeki del Sudafrica, Abdelaziz Buteflika dell’Algeria, Olusegun Obasanjo della Nigeria sono diventati i rappresentanti del Nuovo partenariato economico per l’Africa (Nepad), un piano che mira ad «aumentare gli investimenti privati esteri», eufemismo per dire che continuerà il saccheggio delle immense ricchezze africane, mentre le popolazioni affonderanno nella miseria. «I nostri dirigenti non si oppongono quanto dovrebbero. La cravatta ce l’hanno anche nella testa», aggiunge la carismatica maliana. Educare i dirigenti La risoluzione finale del Fsa di Addis Abeba sottolinea il fallimento delle ricette liberiste e dei dirigenti che se ne fanno promotori. Propone di «educarli» ad un contro-discorso politico ed economico attraverso campagne di mobilitazione. Vengono avanzate richieste di riparazioni economiche, non per la schiavitù – come vorrebbero alcune associazioni afro-americane – ma per l’aggiustamento strutturale e un debito accumulato in condizioni inique. Ma chi prende sul serio l’Africa? Mentre c’è ressa a Porto Alegre, qui al Fsa soltanto Italia e Stati uniti sono rappresentati, tramite associazioni umanitarie o di sviluppo. La crudele autocensura, legata a una dominazione subdola, ha indotto alcune associazioni africane a non partecipare al forum, nel timore di difficoltà con le organizzazioni caritatevoli del Nord che le sostengono o con le istituzioni finanziarie internazionali da cui dipendono. Anche se ben intenzionato e utile, il sostegno può diventare una trappola quando finisce col togliere la parola ai popoli, costringendoli entro precise griglie di lettura e assoggettandoli a strumenti pensati altrove. Per questo alcuni delegati esitano ad impegnarsi in una critica più radicale dei rapporti internazionali. «Siamo noi che dobbiamo definire con chiarezza i nostri problemi – sottolinea l’algerina Rabiaa – smettendo di discutere su basi proposte da altri.» Le associazioni africane sono sempre più corteggiate da governi e istituzioni finanziarie internazionali, a caccia di consenso popolare. Ma la prospettiva è sempre la stessa: sottomettersi ai canoni dell’economia mondiale. «Attenti al “consenso delle Ong”, che fa da pendant al consenso di Washington», mette in guardia un sudafricano. Le associazioni delle donne, spesso molto dinamiche, si preoccupano che le istituzioni finanziarie internazionali mettano le mani sulle loro iniziative microeconomiche. Le vecchie impagliatrici, ad esempio, sono oggetto di «piani in favore del microcredito» che distruggono solidarietà e mutuo soccorso tradizionali, mentre creano circuiti di prestiti ufficiali, spesso di tipo usuraio. Un eccesso di indebitamento minaccia queste donne su cui, peraltro, pesano sempre più responsabilità familiari ed economiche. «Dopo, verranno a sistemarci!», prevede sarcastica Fatou Sarr, una delegata venuta dal Senegal. Di fronte a questo ocntinuo snaturamento, come definire proprie priorità in funzione di bisogni specifici (infrastrutture, alimentazione, salute, cultura…)? In effetti, la benché minima partecipazione al sistema internazionale – anche quando si tratti di un aiuto – comporta la sottoscrizione di prescrizioni decise all’estero e uniformemente orientate all’inserimento nel sistema commerciale mondiale. Non solo questa logica distrugge le culture tradizionali e nega le peculiarità del continente, ma ostacola anche l’attività economica scollegandola dai bisogni e dagli aspetti caratteristici delle società locali. Un artista del Mali reagisce così: «Come prima cosa ci insegnano a tradire i nostri avi. Il che vuol dire smettere di parlare le nostre lingue, diventare egoisti mentre le nostre tradizioni insegnano condivisione e solidarietà, vestirci all’occidentale mentre abbiamo tessuti magnifici, mangiare prodotti provenienti da fuori quando i nostri contadini non domandano altro che lavorare, e la natura e la terra sono generose in Africa». «Abbiamo subìto una vera e propria escissione del pensiero», constata Rabiaa. «Dobbiamo ricollegarci con i valori antichi, per trovare soluzioni vere ai nostri mali», insiste una delegata keniana, Gisèle, che però lega il ritorno al passato ad una profonda analisi critica, in particolare per quanto riguarda la condizione femminile. Ma ritrovare le proprie radici, sbarazzarsi del mimetismo prodotto dal contatto con gli occidentali, è un processo molto lento: anche ad Addis Abeba, si vedevano ben pochi boubou (lunga tunica africana) nella sala di riunione. È comunque una presa di coscienza che poggia su solide basi. L’Africa è ricca di materie prime, di minerali preziosi, della sua natura. «Siamo come un mendicante seduto su una miniera d’oro», osserva un delegato. Le risorse vengono sottratte a profitto degli interessi di industrie straniere e potentati locali. I disastrosi indicatori sociali disturbano il bel quadretto della buona coscienza dei capitalisti i quali, in nome delle virtù dell’investimento privato, depredano il continente nero per il suo bene. Come dice con un sospiro lo scrittore senegalese Boubacar Boris Diop, «alcuni sognano un’Africa senza africani».
«Come ritrovare la fiducia in noi stessi?», si chiede Taouffik Ben Abdallah. L’esplosione del debito, le guerre e il degrado della situazione economica hanno minato la bella sicurezza degli anni ’60, nonché l’appena ritrovata fierezza dell’uomo nero, sulla scia della filosofia della negritudine. «Siamo caduti più in basso di prima dell’indipendenza!».
Che queste siano state fuorviate tramite il mantenimento del predominio economico, non sfugge ad alcun delegato. I leader africani più recalcitranti sono stati eliminati fisicamente (Patrice Lumumba, Thomas Sankara…), con la complicità attiva o passiva delle potenze straniere e di politici corrotti, come il maresciallo Joseph Mobutu (4). «La fiducia passa attraverso la trasmissione della nostra storia usurpata e il recupero dei valori del panafricanismo», si infervora un giovane delegato del Kenya, richiamando bruscamente gli adulti presenti, che tenderebbero a lasciar «scorrere il tempo». Ora le giovani generazioni, forze vive del continente, «non sognano altro che l’Occidente; subiscono un martellamento costante sul fatto che per loro non esiste alcuna speranza se restano nel paese». Ridurre l’Africa a una serie di problemi (carestia, aids, guerra…) impedisce di ritrovarne storia e cultura. Ed è una visione che fa parte della «strategia di dominio del Nord». «Ci hanno messo sotto perché glielo abbiamo permesso», accusa Aminata D. Traoré, che vede il necessario e radicale riorientamento delle strategie economiche strettamente connesso ad un severo esame di coscienza (5). Dominata e culturalmente colonizzata, l’Africa è anche divisa e politicamente inesistente. «In quanto società civile e movimento sociale, dobbiamo inventare un nostro modello democratico e ridare ai cittadini la parola persa al momento dell’indipendenza – riassume Taouffik Ben Abdallah di Enda. La scommessa è unirci, per parlare in quanto africani». Eppure, il continente nero è ricco anche di una storia da cui il resto del mondo potrebbe trarre preziosi insegnamenti. Il delegato sudafricano Thanduxoto ha così sottolineato, con caustica ironia, «l’expertise» africana in materia di globalizzazione: «La nostra esperienza di commercio e globalizzazione è antica: colonizzazione, schiavitù, tratta transatlantica»… La situazione creatasi nel continente nero – sfruttamento, miseria, lavaggio del cervello – «mostra la vera natura dell’ordine globale, e questo è il nostro apporto» afferma perentoria Dot Keets dello Zimbawe. Ma, come contributo positivo, Rabiaa ricorda che «l’Africa possiede un know-how impareggiabile quanto a relazioni di solidarietà». Con le sue antiche tradizioni di mutuo soccorso e l’equilibrato rapporto con la natura, potrebbe offrire un contributo fondamentale a un «mondo globalizzato» che ha messo il denaro in cima alla sua scala di valori.