ALLARME CARCERI: SOVRAFFOLLAMENTO = EPIDEMIE

Sono completamente sorde le istituzioni. La violazione dei diritti umani sta raggiungendo livelli nemmeno immaginabili. I detenuti invitano il Ministro a farsi una settimana di vacanza in carcere, visto la definizione di Castelli: “alberghi a 5 stelle”. Le epidemie dilagano. Assenti i servizi sanitari. Picchiato a sangue un malato di AIDS. Segue articolo tratto da La Repubblica.Si è cucito le labbra con ago e filo e poi non ha pianto più. È tornato nella sua fossa Eduard, in quel buco che per pudore le circolari ministeriali non chiamano mai cella ma sempre camera. Un antro, una tana fradicia dove il ragazzo forse uscirà vivo nel 2008 o nel 2010. Ha vent’anni, è rumeno, soffre di violenti mal di testa. È dentro per furto e nessuno lo cura e nessuno gli parla. Dentro c’è anche Antonio che ha spacciato, c’è Abdul che è appena sbarcato, c’è Michele che è anche lui malato. Sono loro gli avanzi d’Italia. Rinchiusi in quei recinti, nascosti alla vista. Oltre le mura. Sono loro, soprattutto loro, i nostri 60 mila prigionieri.

Tanti così non ce n’erano dai tempi di Togliatti e della sua amnistia del ’46, più di mezzo secolo fa. E vanno sempre ad aumentare quelli che le statistiche impazzite registrano come i “nuovi giunti”, gli sciagurati che lasciano un’umanità per finire nei gironi dei vinti, degli ultimi. E anche se non ce ne entrano più a San Vittore e a Rebibbia, all’Ucciardone e a Sollicciano, a Poggioreale, a Pagliarelli e a Secondigliano ce li ficcano lo stesso a forza nelle sezioni, nei bunker, in quei reparti speciali dove il sole non si vede mai. Li mettono uno accanto all’altro, uno sopra l’altro. E li contano di giorno e di notte, li piantonano fino a quando sconteranno tutte le pene del loro inferno.

Scoppiano le carceri italiane in questo inizio d’estate che trasporta fuori le paure e le sofferenze di un mondo che è cambiato, che non è più quello di prima. Perché sono cambiati i suoi abitanti, le loro aspettative, il modo di stare in quella cella che per tre anni o per una vita sarà la loro casa. In nome della legge il carcere italiano ha subito una metamorfosi. E adesso non ha più il suo ordine.

Scoppiano di dolore e di rabbia le prigioni. E sempre più dannato è il popolo che si aggira in quei cerchi di malattia, di droga, di sesso brutale, di pestaggi, di ricatti, di suicidi annunciati e consumati. E poi, di notte, il silenzio assordante di quelle “camere”, celle che sono diventate come un caravanserraglio, tutti ammassati, tutti pigiati. Ce ne sono quasi 17 mila in più di quanti dovrebbero essere, nelle 205 case circondariali e di reclusione sparse dal Trentino alla Sicilia.

Quest’inchiesta è stata pensata qualche settimana fa, quando in redazione è arrivata una lettera da Favignana. Due paginette scritte a mano, firmate da Sergio: “Vorrei ricordare al signor ministro Castelli che in questo carcere da lui visitato ci sono persone e non bestie… Come si fa a parlare di reinserimento del detenuto dove le celle si trovano 11 metri sotto il livello del mare, senza finestre con umidità e muffa?” E aggiungeva Sergio: “Il signor ministro Castelli si è permesso di dire che le carceri sono alberghi, lo invitiamo a farsi una settimana qui”. Poi confessa il tormento di vivere dietro quelle sbarre: “In questo carcere non funziona nulla, gli educatori sono solo due, il direttore è inesistente, il comportamento del comandante porta solo all’esasperazione, gli agenti di custodia non li controlla nessuno”.

Sergio è un detenuto disperato ma sa scrivere. Cosa che non sanno fare Omar e Rashid e Khalid, tre fratelli marocchini arrestati un anno fa per reati di droga e rinchiusi in tre carceri diversi. Per incontrarli la madre ogni settimana prima va a Roma, poi a Frosinone e poi ancora a Santa Maria Capua Vetere. Anche il nigeriano S. non sa scrivere e non sa parlare in italiano. L’avvocato di ufficio ha patteggiato per lui una pena di 3 anni per un furto. S. non ne sapeva nulla, marcirà a Rebibbia fino al 2008. Come Mario, che si faceva di eroina prima di entrare in carcere e ha continuato anche in semi libertà. Un giorno ha chiesto aiuto agli operatori penitenziari e l’hanno rimesso dentro. Come Stella, tossica che riempiono di psicofarmaci, capsule di Rivotril dalla mattina alla sera per farla stare buona. Le sue compagne raccontano che nelle ore d’aria cammina barcollando aggrappandosi ai muri.

È cambiato il carcere. Il 30 per cento dei detenuti sono tossicodipendenti o lo sono stati. E un altro 30 per cento sono extracomunitari. Tantissimi i marocchini e i tunisini, tanti gli algerini. E molti neri, molti albanesi, sempre di più i rumeni. Sono quasi tutti superstiti dell’eroina e di quelle attraversate con i barconi nell’Adriatico o nel Canale di Sicilia. Sono loro che affollano le prigioni.

È proprio cambiato il carcere. “E quella degli immigrati non è una delle questioni, è la questione”, spiega Marta Costantino, direttrice della casa di reclusione di Saluzzo. È il “sistema carcere” che è saltato, il carcere che non funziona più come istituzione. Ricorda la direttrice Costantino: “Dopo le rivolte degli anni ’60, dopo le catene di omicidi, con la legge Gozzini si era arrivati a una pacificazione, a un patto fondato su uno scambio, sul rispetto delle regole: tu detenuto ti comporti bene, io carcere ti offro la possibilità di accedere a tutti i benefici. Ma adesso chi lo deve fare questo patto? Lo straniero che non ha una casa per usufruire degli arresti domiciliari, uno che non ha famiglia, uno che non ha nemmeno un nome ma ne ha sei o sette di nomi e tutti falsi?”.

È il carcere che ha modificato se stesso. E che è diventato territorio sconosciuto. Perfino i servizi segreti sono disorientati, oggi non hanno più un “controllo”, sono disperatamente a caccia di informazioni sui detenuti del Magreb, i medio orientali, i “nuovi giunti” di fede islamica.

E sono tornate di moda le evasioni. C’è chi scava con il cucchiaio la terra sotto i suoi piedi. E chi con la lima, come nei fumetti di Topolino, prova a segare le sbarre. Ogni tanto ce la fanno. E scappano. Sette i detenuti che se ne sono già andati in questo 2005.

E sono riprese le incursioni delle famigerate “squadrette”. I pestaggi, quelli che nella campionatura carceraria sono inseriti tra gli “eventi critici”.

Qualche settimana fa un ragazzo tossicodipendente e malato di Aids, è stato massacrato in un carcere del Lazio perché era agitato. “Era reattivo”, c’era scritto nella relazione di servizio presentata al direttore del penitenziario. Gli agenti si sono infilati i guanti e poi giù legnate. L’hanno trascinato per il corridoio e via via che lo trasportavano verso l’infermeria, si aggiungevano altri agenti a bastonare. L’hanno sedato con i farmaci e denudato, polsi e caviglie legate e poi l’hanno tenuto 48 ore nel letto di contenzione. Le “squadrette” girano sempre.

“E purtroppo quando le denunciamo ci guardano tutti male, a cominciare dai nostri colleghi”, risponde Fabrizio Rossetti, ispettore e responsabile nazionale della polizia penitenziaria per la Cgil.

Sono 46 mila gli agenti di polizia delle carceri. La rappresentanza sindacale è una selva di sigle, un’altra bolgia. E la “smilitarizzazione” qui è arrivata senza un “percorso”, senza quella battaglia civile e culturale che ha segnato la svolta per esempio nella polizia di Stato. Tra gli agenti penitenziari ci sono ancora ex marescialli e “superiori” che hanno un’idea antica del carcere, che continuano a gestirlo con i vecchi metodi. Nonostante le direttive del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Così diventa tutto più pericoloso, tutto più letale nel chiuso di una prigione. E non basta mai l’impegno e la sensibilità dei direttori più illuminati o degli educatori, non basta mai la straordinaria generosità che portano i volontari, le associazioni cattoliche, quella “comunità esterna” che non volta le spalle alle prigioni. Dice Sebastiano Ardita, il magistrato che è a capo della direzione dei detenuti e del trattamento del Dap: “Emergenza nelle carceri è l’impossibilità di adeguarsi a tutte le disposizioni che le leggi e le norme prevedono. Ed è quello che ogni giorno un direttore di carcere deve affrontare”. Immagina il carcere che vorrebbe: “Da costruire intorno al detenuto e non viceversa”.

Ma il carcere è altro. Cos’è? Per l’ex sottosegretario alla giustizia Franco Corleone, che è garante dei diritti dei detenuti di Firenze “è un contenitore di corpi a perdere”. Corleone fa risalire la crisi del “sistema” a prima delle ondate migratorie: “Tutto si è stravolto nel 1990 con la legge Craxi sulla droga. Dopo 2 anni i detenuti erano già un terzo in più. Ho fatto il conto che, da quella legge, i tossicodipendenti hanno scontato in Italia qualcosa come 225 mila anni”.

Il nostro viaggio nelle carceri è appena iniziato. E ci stiamo avvicinando ad altri suoi orrori. Là dentro si muore.