Il menu indigesto di Sea Island

Una scelta decisamente di cattivo gusto quella di invitare a pranzo ieri i leader africani per parlare di Aids, polio, lotta alla povertà, come anche di operazioni di peacekeeping e sviluppo economico del Continente Nero. Per chi conosce l’Africa, queste tematiche andrebbero affrontate in ben altra sede e non certo, scamiciati, di fronte a una tavola imbandita sull’isolotto di Sea Island. Al di là del folklore di circostanza, la sensazione è che per l’ennesima volta sia stata illustrata, con toni altisonanti, l’ultima ricetta, sempre e comunque a base di purghe e calmanti. La questione di fondo è che nessuno s’interroga sull’efficacia dei piani di sviluppo che finora hanno dimostrato d’essere veri e propri palliativi. Al lauto pasto offerto dai G8, ahimè, la parola d’ordine, tra una portata e l’altra, è sempre stata la stessa: privatizzare. Peraltro, un termine che nel lessico africano ha anche un altro sinonimo ben più crudo dal punto di vista esplicativo: svendere! Di questo passo gli africani non saranno più padroni delle loro terre nonostante il sottosuolo sia ricco d’immense risorse minerarie.

Lungi da ogni forma di paternalismo, dare lezioni a chi crepa di fame è fuori luogo e inopportuno: poco importa se nel Darfur o a Dar es Salaam, le responsabilità ricadono su chi acconsente a un simile degrado. Responsabilità, è bene precisarlo, che indicano l’omissione da parte dei ‘Grandi’ di rivedere le regole dell’economia mondiale. Se in Africa si combattono guerre fratricide, se le leadership locali lasciano a desiderare è perché il Nord del mondo continua a procrastinare nel tempo le solite agende, trite e ritrite, nelle quali la “misericordia”, parafrasando il presidente Usa George W. Bush, è solo nelle parole e non nei fatti. Secondo il World Development Indicators Database della Banca Mondiale, nel 2002 il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Africa Sub-Sahariana ammontava complessivamente a 318 miliardi di dollari Usa, una cifra irrisoria se confrontata con i sei trilioni e mezzo dell’Unione Europea (Ue) e gli oltre 10 trilioni degli Stati Uniti d’America. Di fronte a queste algide cifre, non solo occorre avere l’onestà di dichiarare il fallimento delle politiche solidaristiche, fatte apposta per salvare la faccia dei potenti, ma occorre soprattutto confessare il grande inganno.

Sarebbe ora che il dibattito sull’Africa non venisse più catalogato tra gli impegni caritatevoli o umanitari che dir si voglia, ma assumesse un ruolo significativo nei colloqui sulla cooperazione ‘Nord-Sud’. Un’equazione non del tutto chiara ai G8 i quali fanno orecchie da mercante: se il numero dei poveri continuerà a crescere in maniera esponenziale questo fenomeno finirà per minacciare seriamente i già precari equilibri dell’economia mondiale. Chissà, forse qualcuno avrà il buon senso di capire solo quando la massa degli indigenti metterà a repentaglio la sicurezza dei commensali di Sea Island?