VAXGEN: eccoci di nuovo alle prese con il giornalismo creativo ..

Ed eccoci di nuovo alle prese con il giornalismo creativo che, sugli argomenti scientifici, da il meglio di sé. L’occasione viene fornita dai risultati della sperimentazione di un vaccino anti-aids condotta dalla VaxGen, una piccola compagnia biotecnologica che ha deciso di portare avanti i test dopo che la società che ha inventato il vaccino, la Genentech, si è tirata indietro.Ed eccoci di nuovo alle prese con il giornalismo creativo che, sugli argomenti scientifici, da il meglio di sé. L’occasione viene fornita dai risultati della sperimentazione di un vaccino anti-aids condotta dalla VaxGen, una piccola compagnia biotecnologica che ha deciso di portare avanti i test dopo che la società che ha inventato il vaccino, la Genentech, si è tirata indietro. I risultati sono sostanzialmente negativi: si sono infettati il 5,8 di quelli che hanno ricevuto il placebo rispetto al 5,7 di quelli che hanno avuto il vaccino. Questo significa che, visto che il placebo è acqua fresca, vaccinarsi o no è più o meno lo stesso. Ciò che ha alimentato la fantasia dei giornalisti nostrani, però, è la notizia che, fra neri e asiatici, la percentuale è risultata più bassa, ovvero, il 3,7 per cento. Il vaccino funziona solo sulle minoranze? Ecco trovata la cura per l’Africa! – hanno cominciato a strillare i pennivendoli nazionali e questo alla faccia delle dichiarazioni prudenti che provenivano da oltreoceano. Indubbiamente i numeri della minoranza etnica (appena 500 pazienti) non sono molto significativi e, certamente, sulla questione razziale ha giocato il fattore socio-culturale, come hanno detto i ricercatori: solo per il fatto stesso di essere stati avvicinati da dei medici, i membri della minoranza potrebbero aver cambiato il proprio comportamento sessuale – praticando cioè misure preventive come il sesso sicuro. Il test dimostrerebbe quindi soltanto che le minoranze vengono raggiunte dalle campagne preventive solo quando servono come cavie. Ma, al solo menzionare la razza, gli italici si sono eccitati. Eppure è stato dimostrato che la differenza razziale non ha basi genetiche – e se non le ha per gli scienziati non le ha nemmeno per il virus Hiv – e che il ceppo virale che infetta un afro-americano è lo stesso che infetta uno statunitense bianco come la neve. Una delle tante tragedie dell’Aids, se mai, riguarda proprio il fatto che la maggior parte degli studi vengono condotti sui ceppi “occidentali”, mentre pochi soldi vanno a finire nelle ricerche dedicate a sconfiggere il ceppo asiatico o africano.

Problemi scientifici

Ma perché è così difficile trovare un vaccino per l’Aids. Prima di tutto perché non si può usare uno dei metodi più noti per la fabbricazione dei vaccini, ovvero l’inoculazione di un virus attenuato che “risvegli” le difese naturali dell’organismo, come si fa ad esempio con il vaiolo. E’ infatti troppo rischioso, non avendo ancora una conoscenza approfondita di Hiv, infettare un paziente con un virus che sembra inoffensivo ma che potrebbe risvegliarsi all’improvviso. VaxGen ha aggirato il problema inoculando solo una proteina che sporge dalla superficie del virus, la gp120, con la speranza di ottenere lo stesso effetto. E’ probabile che non abbia funzionato a causa della ben nota facilità con cui Hiv cambia, che è l’altro grande problema dell’Aids: noi dotiamo gli anticorpi dell’identikit del killer, e quello si fa una plastica alla settimana. Il problema non è nuovo: anche il virus influenzale si comporta così, ed è questo il motivo per cui si ci vaccina ogni anno e talvolta – come quest’anno – nemmeno basta. Ma del virus influenzale sappiamo almeno quando muta e conosciamo la sua struttura abbastanza da poter prevedere cosa ci troveremo di fronte l’inverno prossimo. Di Hiv sappiamo ancora ben poco e l’incertezza del vaccino anti-influenzale non è accettabile se accoppiata con una malattia mortale. Un vaccino con copertura inferiore al 90% – come quelli contro il morbillo, la pertosse o la febbre gialla – rischia di essere totalmente controproducente perché il senso di falsa sicurezza può indurre ad abbandonare comportamenti prudenti esponendo al contagio. Anche per questo motivo le sperimentazioni del vaccino anti-Aids sollevano grandi problemi etici, come del resto è avvenuto con la sperimentazione della VaxGen. Secondo le norme deontologiche universalmente accettate il gruppo di controllo – quello con cui si comparano i risultati del farmaco – deve ricevere la migliore cura disponibile al momento. Questo significa che è considerato accettabile dare a un gruppo la vecchia terapia e a un altro la nuova, proprio per verificare se la nuova funziona meglio. E’ invece estremamente discutibile non dare niente – cioè il placebo puro e semplice – e lasciare che la cavia rischi la vita. La VaxGen ha cercato di mettere a tacere le critiche “consigliando caldamente i volontari di non tenere comportamenti a rischio” anche se questo avrebbe potuto compromettere l’esito dell’esperimento – cosa che è probabilmente avvenuta nel caso delle minoranze etniche che magari, per la prima volta, avevano accesso alle informazioni corrette sul sesso sicuro.

Cavie globali?

Probabilmente l’alto tasso di problematicità etica è parte integrante delle sperimentazioni. Appena esce dalla confortante asetticità della provetta i test clinici approdano su terreni scivolosissimi – dagli esperimenti sugli animali e quelli sugli esseri umani. In passato erano i ricercatori stessi che facevano da cavie, cosa che faceva parte integrante della mistica e della dedizione dello scienziato. Oggi, la produzione di massa dei farmaci rende impossibile questa pratica e, al terreno scivoloso della sperimentazione si aggiunge quello dell’enorme disparità economica fra nord e sud, una disparità tale da rendere perfino il mestiere di cavia un destino accettabile. Cinque anni fa fece scandalo una sperimentazione condotta in Africa e in Thailandia. Già si sapeva che somministrando l’Azt durante la gravidanza, le madri sieropositive avrebbero potuto dare alla luce bambini sani. La sperimentazione venne condotta per vedere di quanto si poteva ridurre la dose, sia per contenere il costo della cura che per diminuire l’assunzione di un farmaco tossico. La vicenda suscitò un vespaio. Una ricercatrice di Princenton, Marcia Angell, sostenne giustamente che si era trattata di una palese violazione dei principi etici che richiedono una cura adeguata per il gruppo di controllo. Le madri a cui era stato dato solo il placebo partorirono, come previsto, figli ammalati, una cosa che negli Stati Uniti e in Europa non sarebbe stata ammissibile. Insomma venne fuori chiaramente che le regole “universali” valgono solo a nord dell’equatore (Australia a parte, naturalmente). La vicenda, già di per se scioccante, venne resa ancora peggiore dalla reazione risentita delle comunità interessate. Quelle donne – dissero in sostanza gli africani – non avrebbero ricevuto nessuna cura in nessun caso. Almeno, partecipando alla sperimentazione, alcune migliaia di loro hanno ricevuto l’Azt durante la gravidanza, e hanno salvato i loro bambini. L’unica speranza di cura per gli africani è quindi quella di venire utilizzati come cavie, il resto – come il codice deontologico che venne stilato a Norimberga dopo avere constatato fin dove si erano spinti i medici nazisti – è un lusso da Primo mondo.

Un’insistenza sospetta

L’insistenza sul vaccino come “unica salvezza” per un continente che non ha accesso ai farmaci è, in questo momento, quantomeno sospetta. L’Africa deve poter avere accesso alla terapia anti-retrovirale così come deve poter avere accesso agli antibiotici o all’acqua pulita per non morire di diarrea. E proprio nel momento in cui questo obbligo morale riceve anche un forte impulso politico e mediatico, grazie alla mobilitazione mondiale, ecco che si ricomincia con la litania del vaccino per salvare l’Africa. Il vaccino certo è un bisogno concreto. Le terapie anti-retrovirali sono estremamente tossiche e i medici sono preoccupati dall’insorgere dei fenomeni di resistenza, cosa che non impedisce, però, di utilizzarli per arrestare la mortalità nei paesi sviluppati. Da noi il vaccino non è certo considerato un’alternativa ma un passo ulteriore da intraprendere con prudenza e cautela. Potrebbe esserlo per l’Africa – o per la Thailandia dove ai tossicodipendenti su cui è stato sperimentato non sono state consegnate siringhe pulite – quando arriverà un vaccino progettato sui ceppi di Hiv che infettano il continente, e non su quelli che ci riguardano. Ma prima – subito – bisogna rendere accessibile la cura già disponibile e che potrebbe salvare, già da domani, milioni di vite.